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Controllare la rabbia

La differenza tra reazione e risposta, tra guardarsi dentro e colpire fuori, Ce ne parla Miten Veniero Galvagni medico, scrittore, psicoterapeuta.

C’è una grande differenza tra la risposta che noi diamo a cose che ci colpiscono e che ci feriscono, e la reazione. La reazione è qualcosa di immediato, di automatico, di irriflessivo; qualcosa che ha presa dentro di noi soprattutto per quanto riguarda le nostre ferite, i luoghi di noi stessi in cui siamo più sensibili nell’entrare in risonanza. Quando il nostro comportamento si configura come reazione, non ci si preoccupa se attorno a noi provochiamo un danno eccessivo: è un po’ come lanciare bombe senza aver pensato sufficientemente a che cosa poteva essere fatto per evitare il conflitto, che nessuno sa mai, a priori, quando avrà una fine. La risposta, a differenza della reazione, tiene conto delle probabili conseguenze che ci saranno; è qualcosa di molto ragionevole che nasce sicuramente da una spinta affettiva, perché sono state colpite delle cose che hanno a che fare con emozioni profonde, però mette anche nel conto le ripercussioni che ci possono essere, a seguito di certi comportamenti. A questo proposito, ricordo un episodio riguardante la vita di Gurdjieff (maestro spirituale armeno 1872-1949), più volte citato nelle lectures di Osho. Gurdjieff raccontava che la lezione più grande che aveva ricevuto nella sua vita l’aveva avuta da suo padre che, prima di morire, gli aveva lasciato un’indicazione molto importante: “Devo dirti una cosa prima di andarmene: ogni qualvolta qualcuno ti dirà qualche cosa che ti offende e che ti fa scattare la rabbia, tu non reagire. Aspetta ventiquattr’ore e vedi un po’ che cosa succede”. Gurdjieff ha verificato, seguendo alla lettera l’indicazione del padre, che a volte succedeva che nell’arco delle ventiquattr’ore si rendeva conto che quello che aveva detto quella certa persona era proprio vero, e aveva messo in evidenza aspetti del suo modo di relazionarsi, della sua personalità, che lui da solo non era riuscito a cogliere; quindi, ventiquattr’ore dopo, tornava da quella persona e la ringraziava per averlo aiutato a cogliere degli aspetti di sé ancora inesplorati. Altre volte, utilizzando queste ventiquattr’ore per una profonda riflessione, non alimentando in nessun modo la rabbia, praticando anche una qualche forma di meditazione, attento a non farsi travolgere da emozioni che avrebbero potuto essere incongrue, si rendeva conto che la cosa detta da quella persona che l’aveva offeso il giorno prima era assolutamente falsa, una calunnia, e in questo caso sentiva sorgere dentro di sé, spontaneamente, un senso di inutilità nel dover tornare da quella persona e spiegarle che lui la pensava in modo diverso. Gurdjieff, in questo modo, dice di aver scoperto il senso del perdono, che per lui era più vicino alla nozione di lasciar perdere, che non al superbo atteggiamento dei perdonatori dominati da influenze culturali, e specificamente religiose, di vario genere. Le ventiquattr’ore sono un’indicazione buona per molti, soprattutto per quelli di noi che hanno il problema della rabbia improvvisa che scoppia dentro, e si manifesta anche all’esterno, quando vogliamo difendere qualche cosa in cui crediamo e che sentiamo infranta. Nella risposta, dunque, è importante il tempo d’attesa, che può variare a seconda di quanto siamo riusciti attraverso pratiche, che progressivamente ampliano e approfondiscono la nostra consapevolezza, a guardare per bene le nostre emozioni senza giudicarle, senza nasconderci nulla, senza agirle “d’istinto”, soprattutto se si tratta di emozioni “negative”. Lasciar passare del tempo ci consente di valutare le intenzioni che ci spingerebbero nella direzione di una reazione e pensare bene a quali potrebbero essere le conseguenze. Se nei momenti in cui si verificano delle tensioni nei luoghi di lavoro o all’interno delle relazioni di coppia, o in qualsiasi altro ambito di vita, perché ci viene detto qualche cosa che non ci sta proprio bene, noi imparassimo a rapportarci tra di noi riuscendo a dire: “Adesso prendo quello che mi hai detto; ci rivediamo domani e ti darò la mia risposta”, sono sicuro che diminuirebbero moltissimo i livelli di sofferenza. Sto pensando soprattutto ai rapporti di coppia, ai battibecchi in cui veniamo coinvolti, oppure a quelle “vertenze” interpersonali che sembrano delle vertenze sindacali, in cui ognuno deve sostenere qualche cosa e vuole a tutti i costi aver ragione. Se sentiamo di poter rinunciare al volere sempre aver ragione, cosa peraltro assai auspicabile per la nostra e altrui salute a tutti i livelli, possiamo decidere di accogliere questo invito molto pragmatico a mettere un po’ di tempo tra le esperienze di incontro in cui sono uscite delle cose molto contrastanti, che ci potrebbero portare in una situazione di doloroso scontro, e di utilizzare questo tempo per un’analisi spietatamente onesta, mettendo sempre nel conto che le cose più orrende che ci possono essere dette da chiunque potrebbero avere un fondo di verità. Non è detto che un fondo di verità ce l’abbiano sempre, però lo potrebbero avere, quindi potrebbero essere degli insegnamenti preziosi per noi, nel contenuto. In ogni caso, è sempre utile quello che ci viene detto e che ci sembra robaccia, o quello che accade attorno a noi e ai nostri occhi appare brutto e deplorevole, e ci fa scatenare l’ira, perché ci aiuta a cogliere che c’è qualcosa, dentro di noi, ancora in ebollizione, non del tutto acquietato. Molto evidente la portata evolutiva, per noi e per gli altri, quando interveniamo, per esempio, in difesa di un ideale di giustizia o in difesa di un valore, che potrebbe essere semplicemente quello di difendere la vita e l’integrità delle persone, quando vediamo un essere umano o animale bastonato da qualcuno o assistiamo ad altri tipi di sopruso. Tuttavia, se il nostro intervento nasce anche dal tenere nel debito conto quali siano le parti di noi stessi che entrano in risonanza con la cosa che accade, non solo saremo più determinati, ma saremo anche al tempo stesso meno ciecamente rabbiosi e, in più, avremo imparato qualcosa su di noi. molto diverso assistere a tutte le cose che sappiamo esistere, ad esempio, nel mondo del lavoro, nel mondo delle pubbliche amministrazioni, nel mondo in generale, guardando tutto ciò che ha a che fare con l’ingiustizia, con la prevaricazione, se siamo in grado di individuare che ci sono delle nostre parti ferite che entrano in risonanza con quei particolari. É molto diverso guardare tutto ciò da un avamposto militare, in cui ci sentiamo dalla parte “giusta”, e guardare le stesse cose nella consapevolezza che, quelle stesse cose, non sono poi tanto diverse da tutto ciò che ci portiamo dentro. Ogni episodio esteriore che ci susciti rabbia, che ci susciti scandalo, che ci susciti il desiderio di fare piazza pulita, è un’occasione buonissima per guardarci dentro e vedere quali siano le aree della nostra personalità sulle quali c’è ancora da lavorare. Ci può permettere di prendere coscienza, ad esempio, che ci sentiamo vittime, a livello molto profondo, di qualche ingiustizia solenne che abbiamo subito, magari ripetuta nel tempo, e che non abbiamo saputo affrontare perché ci siamo rifugiati nel lamento o nella fuga dalla situazione reale. Questa situazione di sofferenza si è accumulata negli anni, in diversi ambienti, in diversi contesti, mettendo assieme, in uno stesso vissuto, idee ed emozioni che hanno creato un nucleo condensato di esperienze negative. Essendo la rabbia il filo rosso che unisce tutte queste esperienze, può manifestarsi quando un vigile ci tratta male, quando non ci arriva la risposta “giusta” dalla persona che amiamo, o in reazione alle parole o ai silenzi di nostro padre, di nostra madre, o dei nostri fratelli e sorelle. In quelle circostanze può accadere che un episodio minimo che fa scattare un po’ di rabbia, si tira dietro tutte le altre rabbie, ed esplodiamo in modo incongruo tanto da stupircene noi stessi. La rabbia repressa c’è sempre per qualche motivo ed è molto importante che noi lo rintracciamo ripercorrendo questo filo all’indietro, per scoprire in quali occasioni della nostra vita, specialmente dell’infanzia e dell’adolescenza, non abbiamo potuto esprimere dei nostri bisogni profondi quali il bisogno di amore, di protezione, di affetto perché magari, manifestarci nella nostra vulnerabilità sarebbe apparso disdicevole agli occhi di persone per noi significative. Credo infatti che soltanto attraverso un lavoro introspettivo che ci conduca alla radice delle nostre reazioni potremo imparare l’arte della risposta, evitando così una gran quantità di sofferenza inutile.